Non hanno perso qualcosa. Non l’hanno mai avuto. Un motorino, anche senza targa o con targa contraffatta, vale più di un diploma, e una pistola o un coltello diventano strumenti di affermazione personale. Il rispetto non si conquista col merito: si impone con la forza, si mantiene col terrore. E allora non stupisce se, a 14 anni, al posto dello zaino con i libri, scelgono un borsello pieno di soldi, un soprannome da boss e un video su TikTok: catene d’oro al collo, sguardo da duro e una pistola in bella vista.
Perché in certi contesti, la pistola non è un’arma: è un biglietto da visita. È una dichiarazione d’esistenza. È l’unico modo per dire “io conto qualcosa”. Un modello tossico ai margini della società, potente e ben confezionato. Una generazione mai illusa dalla scuola, ignorata dalle istituzioni, esclusa dai percorsi di cittadinanza. A questo punto, sarebbe necessario spiegare come si arriva al fatto che un ragazzo, intervenuto per sedare una rissa, venga sparato in fronte a sangue freddo.
Questo non è un episodio isolato. A Palermo, un giovane è stato freddato mentre cercava di separare due gruppi che si erano affrontati. Un gesto che, in altre circostanze, sarebbe stato visto come un atto di coraggio. Ma in quel contesto, in quella realtà di violenza quotidiana, il coraggio è percepito come una minaccia. Non è la prima volta. Pochi mesi prima, a Sferracavallo, una località vicina a Palermo, si è verificato un altro episodio simile: una festa patronale finita in rissa, con oltre una decina di persone coinvolte, due sparatorie, una donna incinta miracolosamente solo ferita.
E, come se non bastasse, Monreale, una città poco distante, è stata teatro di una vera e propria strage durante la festa del Crocifisso: tre ragazzi per bene rimasti uccisi tra la folla per futili motivi. La domanda che sorge spontanea è: come si arriva a un punto così estremo?
La risposta sta nel vuoto lasciato dalle istituzioni. L’assenza dello Stato, la mancanza di personale e l’impossibilità di garantire un controllo reale sul territorio sono il terreno fertile per questi fenomeni.
La Polizia non basta, e i pochi uomini che pattugliano le strade non riescono a fermare la spirale di violenza che spesso parte dai quartieri più degradati, dove giovani trovano i loro “modelli” altrove: nella criminalità, nei video, nelle fiction televisive, nei social network.
Qui, la violenza viene glorificata, diventando una via d’uscita per chi non vede alternative. Tra i maggiori imputati, i boss della malavita reale e le serie TV italiane degli ultimi 15 anni: Gomorra, Suburra, Romanzo Criminale, Mare Fuori e altre. Queste hanno creato un pantheon di personaggi criminali tanto spietati quanto affascinanti, i cui nomi non esistono solo nei titoli di coda.
Li trovi tatuati sulle braccia, nei nickname di Instagram, nei soprannomi da strada, fino a diventare simboli culturali. E anche quando la fiction mostra la fine tragica di questi personaggi, non riesce a spegnerne il fascino. Anzi, li rende più drammatici, più “umani”, più iconici e questo perché in un mondo senza opportunità, chi ha potere, anche criminale, diventa l’unico esempio di successo possibile.
L’unico che sembra riuscire a farsi rispettare. A suonare in sottofondo, a tutto volume, c’è la trap italiana. È la colonna sonora della rabbia, della strada, del rifiuto. Tanti rapper come Baby Gang raccontano storie di povertà, abbandono, carcere. Inneggiano all’omertà, disprezzano lo Stato, glorificano chi non si piega. "Fatti rispettare o vieni schiacciato." "Lo Stato ti tradisce, la strada ti salva."
"La galera è una tappa, non una fine."
Molti di loro hanno avuto problemi giudiziari reali, ma anche milioni di stream, dischi d’oro, folle adoranti. Il crimine vende, anche quando è raccontato in rima, con TikTok, Instagram, YouTube a moltiplicarne il mito. I codici criminali diventano moda: frasi di sottofondo, pose da Gomorra, il gesto del sangue, i borselli, i motorini, le armi (vere o finte, non importa). Tredicenni che imitano la parlata camorrista, si filmano mentre “sfidano” lo schermo con la faccia da duri e in sottofondo un beat trap. Non recitano. Sognano di esserlo davvero. Moda, linguaggio, atteggiamenti: lo stile del “criminale vincente”. L’immaginario penetra anche nello stile di vita. Nelle scuole, nei parchi, per strada, il look è chiaro: tute firmate, occhiali da sole anche al chiuso, catene d’oro, tatuaggi, borselli a tracolla e scooter truccati. E’ l’atteggiamento del branco. Il risultato non è solo culturale. È comportamentale.
E mentre si discute su cosa sia "intrattenimento" e cosa "istigazione", una generazione cresce con l’idea che la criminalità non sia un errore… ma un’opportunità. Ed è qui che ogni volta si leva la voce collettiva e il grido di indignazione popolare, chiedendosi: dov’erano i rappresentanti delle istituzioni quando a Palermo un ragazzo è stato ammazzato per aver fatto la cosa giusta? Perché è accettabile che ci siano interi quartieri lasciati marcire nel degrado, dimenticati da chi governa, abbandonati da chi dovrebbe proteggere?
Com’è possibile che la politica intervenga sempre “dopo” e mai “prima”? Perché si accetta che intere generazioni crescano in ambienti dove la violenza è normalità, e la speranza è un concetto astratto? Non basta condannare i colpevoli. Bisogna condannare anche l’indifferenza. Bisogna chiedere conto a chi ha promesso legalità e ha consegnato abbandono. A chi parla di sicurezza senza conoscere il nome di una sola via di periferia. Non ci sono più scuse.
Non c'è più tempo. La criminalità si nutre del vuoto e finché quel vuoto resterà lì, qualcuno, troppo giovane per capire, troppo solo per resistere, lo riempirà con una pistola.
Salvo Castellese
RispondiEliminaL'ennesimo atto di inaudita e feroce violenza che ha portato alla morte di un altro giovane che ha solo tentato di sedare una lite, non è solo una questione riguardante la sicurezza e il controllo poliziesco del territorio. Qui la questione è, soprattutto, di natura culturale e sociale e riguarda purtroppo una vasta serie di parametri comportamentali offerti dalla TV ( Gomorra, Il capo dei capi, e stronzate simili mandate in onda ripetutamente ) e dai social, assorbiti e fatti propri dalla fascia più marginale della società ( che è una fascia non indifferente, se facciamo riferimento a stili di vita e valori espressi dai nuclei familiari che compongono questo settore disarmante e agghiacciante della nostra popolazione ), che non solo li approva al cento per cento, ma ormai, come già dimostrato in diversi precedenti, non vede l'ora di metterli in pratica, in una sorta di emulazione folle e delirante che proponga come modello la onnipotenza della violenza su chiunque decida di mettersi contro. E il delirio irrazionale di questo modus operandi è dimostrato dal fatto che chi decide di utilizzare l'arma e scaricarla sul primo malcapitato, è peraltro privo della più elementare forma di intelligenza, autodisciplina e auto controllo, quindi, privo di qualsiasi traccia di razionalità, visto che nel giro di poche ore - lo sanno pure i muri - gli inquirenti riescono sempre ad individuare i responsabili e a ricostruire le dinamiche dei fatti, con conseguente processo penale dagli esiti sicuramente infausti per l'omicida e i suoi complici. Quindi, la deriva che sta prendendo Palermo, non dissimile da altre città violente, sia italiane che estere ( Napoli, Bari, Bogotà, Rio, BangKok etc.. ), per cui la vita vale ormai zero, non puoi combatterla e sperare di fronteggiarla con la repressione. C'è una rivoluzione culturale che aspetta la città da almeno tre decenni, e che stenta a decollare. O si fa presto, oppure occorrono rimedi particolari nei quali paghi pure il giusto per il peccatore e si tagli la testa al toro. Dovremmo chiedere un piccolo aiuto a ..... Netanyahu o a Putin. ?....
Salvo Castellese condivido, In sintesi, bisogna creare un approccio culturale che si basi sulla consapevolezza che la violenza pur essendo un fenomeno complesso con radici profonde nel sistema socio-culturale, non è la soluzione ai problemi.Che solo investendo sull'educazione e nella costruzione di valori alternativi (rispetto, empatia, gestione pacifica del conflitto) si può sradicare la "cultura della violenza". Non è facile ma bisogna crederci...
EliminaCon un uso razionale delle forze dell'ordine, a cura delle amministrazioni comunali e della prefettura, i luoghi più pericolosi potrebbero essere attenzionati, si potrebbero fare delle perquisizioni preventive e alla prima arma sequestrata si regala ai possessori qualche notte nelle patrie galere, fin QUANDO i facinorosi e i loro imitatori cominciano a capire che portare una pistola o un coltello non conviene proprio.
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