di Giovanni Caianiello - Il conflitto israelo-palestinese è spesso raccontato attraverso l’ottica degli attentati, delle guerre lampo, dei missili che cadono su civili da entrambe le parti, di attacchi e rappresaglie. Ma raramente si affronta la verità più profonda, strutturale, che viene colpevolmente ignorata o minimizzata: l’occupazione e l’espropriazione sistematica delle terre palestinesi da parte del governo israeliano. Che piaccia o meno ai sostenitori dell’una o dell’altra parte, la realtà è questa, pur riconoscendo che anche gli estremismi hanno avuto e hanno un ruolo determinante nel perpetuarsi del conflitto.
Per comprenderne le radici, bisogna andare ben oltre il 7 ottobre 2023 e l’attacco sanguinario di Hamas contro civili israeliani. Quel tragico evento è parte di una spirale di violenza che affonda le sue radici nella Nakba del 1948, quando oltre 700.000 palestinesi furono espulsi o costretti a fuggire dalle loro terre durante la creazione dello Stato di Israele. Da allora, la popolazione palestinese ha vissuto sotto occupazione, espropri, discriminazioni, repressioni. Una lunga storia in cui entrambi i fronti hanno fatto ricorso a ogni mezzo per rivendicare le proprie ragioni, compresi fondamentalismi religiosi usati per giustificare le proprie posizioni.
Israele, fin dalla sua nascita, ha rivendicato il diritto a esistere in un’area che era popolata in larga parte da palestinesi. La comunità internazionale gli assegnò quelle terre anche come forma di risarcimento per le persecuzioni subite dagli ebrei, in particolare con la Shoah. Da parte loro, i palestinesi da allora, hanno sempre rivendicato il diritto su quella terra, da dove erano sono stati cacciati e espropriati.
Ma lo Stato di Israele doveva esistere e per farlo rafforzò la sua posizione soprattutto militarmente. La tensione portò inevitabilmente nel 1967, alla Guerra dei Sei Giorni, durante la quale Israele occupò la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza. Quella che inizialmente venne presentata come una necessaria espansione difensiva per creare aree di sicurezza tra Israele e i suoi vicini ostili si trasformò presto in una colonizzazione di altri territori palestinesi, con l’imposizione di un regime di controllo militare, con conseguenti leggi discriminatorie e sfruttamento delle risorse.
Attraverso leggi ad hoc, decreti militari e pratiche amministrative, nel tempo Israele ha confiscato terre palestinesi dichiarandole autonomamente “proprietà statali” o “zone militari”, per poi destinarle agli insediamenti dei propri cittadini. I coloni israeliani in quelle terre occupate, spesso spinti da un’ideologia religiosa ultranazionalista, con il sostegno delle autorità e dell’esercito oltre a finanziamenti pubblici e privati. Inevitabili violenze da entrambe le parti: attacchi ai villaggi, incendi, distruzione di raccolti, aggressioni fisiche. Violenze, quasi sempre impunite.
Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International e persino la ONG israeliana B’Tselem hanno denunciato l’esistenza di un vero e proprio regime di apartheid: in Cisgiordania convivono due popoli sotto due regimi legali differenti, con leggi civili per i coloni ebrei e leggi militari per i palestinesi. A questi ultimi vengono imposti arresti amministrativi, demolizioni delle case, confische di terre e gravi limitazioni alla libertà di movimento.
Un esempio emblematico è quello di Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est, dove famiglie palestinesi sono state espulse dalle loro abitazioni in cui vivevano da generazioni, in base a leggi israeliane che consentono ai soli ai cittadini israeliani di reclamare proprietà risalenti a prima del 1948, quando lo Stato di Israele ancora non esisteva. In quelle stesse zone, i coloni si insediano con la protezione della polizia, in una dinamica che ricorda tristi episodi di pulizia etnica del passato, anche italiani. Intanto, nelle campagne della Cisgiordania, i coloni aggrediscono i villaggi palestinesi, incendiano abitazioni, distruggono raccolti: violenze sistematiche, che passano sotto silenzio o restano impunite.
Dal 2007, Israele mantiene un blocco totale sulla Striscia di Gaza, controllando ogni ingresso e uscita, ogni flusso di beni, compreso l’accesso a acqua potabile, energia, cure mediche, perfino ai registri anagrafici, nascite e morti. Gaza è di fatto diventata una prigione a cielo aperto per oltre due milioni di persone. In questo contesto, apparentemente blindato, prende potere Hamas, che si impone con la forza dopo aver spodestato l’OLP, rimpiazzando quell’Autorità Palestinese che, con Arafat, aveva raggiunto un accordo con il premier israeliano Rabin sul principio “due popoli, due Stati”, sancito anche dalla comunità internazionale con 193 paesi a riconoscere lo Stato della Palestina.
Ciò che desta maggiore sconcerto è che Hamas, secondo diverse inchieste e testimonianze israeliane, sia stato indirettamente tollerato, se non addirittura finanziato, secondo molti giornali e inchieste israeliane, dai governi Netanyahu per anni, proprio per indebolire l’Autorità Palestinese, dividerne il fronte avversario e giustificare la politica di occupazione permanente.
Viene dunque naturale domandarsi se l’attacco del 7 ottobre non sia stato, almeno in parte, il risultato di un disegno sfuggitogli di mano o addirittura cinicamente progettato per avviare la massiccia azione militare contro Gaza. Già… Perché è difficile immaginare che un’intelligence come quella israeliana, tra le più efficienti al mondo, non fosse a conoscenza di quanto si stava preparando, proprio sotto il proprio naso a Gaza.
A gettare ulteriore benzina sul fuoco, l’ennesima misura del governo israeliano nel quartiere di Sheikh Jarrah: famiglie palestinesi espulse con l’applicazione di leggi profondamente discriminatorie, accompagnate dalla presenza armata di coloni e protetti dalla polizia.
Ciononostante, nella memoria collettiva internazionale oggi, ciò che rimane è la sola immagine del 7 ottobre, mentre tutto quanto è accaduto prima sembra non essere mai avvenuto, come oscurato.
Se da una parte è indubbiamente comprensibile e condivisibile la rabbia per la disumana atrocità scatenata dai terroristi di Hamas contro i coloni, dall’altra non può giustificabile una reazione tanto spropositata che miete migliaia di vittime innocenti tra donne e soprattutto bambini anche neonati uccisi nelle incubatrici.
Israele ha si, il diritto di difendere l’incolumità dei propri cittadini come ogni altro paese, ma questo diritto va esercitato entro i confini legalmente riconosciuti nel 1947-1949, non certamente nei territori occupati illegalmente e che il diritto internazionale continua a riconoscere come palestinesi.
Utilizzare la legittima difesa per giustificare bombardamenti indiscriminati, assedi prolungati, invasioni e punizioni collettive è una violazione gravissima del diritto internazionale e degli esseri umani.
Come si può parlare di legittima difesa quando si sganciano bombe sulla popolazione civile di Gaza, causando decine di migliaia di morti in larga parte donne e bambini, anche se con l’intenzione di scovare dei terroristi. Una guerra non contro un esercito, ma contro un popolo disarmato, non può che essere definita in altro modo se non un massacro di massa, un crimine umanitario sistematico.
Peggio, se possibile, è spiegare i bombardamenti sulla Cisgiordania, dove Hamas non ha mai messo piede e dalla quale non nasce alcun pericolo per l’incolumità dello Stato israeliano, né per i suoi cittadini. Dunque, una cinica volontà di cancellazione del popolo palestinese da quei territori, che giustifica l’affermazione ormai internazionale di genocidio in atto.
Eppure, parte del mondo continua a chiudere gli occhi. Gli Stati Uniti, principali alleati di Israele, pongono sistematicamente il veto a ogni risoluzione ONU che per una tregua per la protezione dei civili palestinesi. L’Europa segue in silenzio, alternando dichiarazioni vuote e solidarietà unilaterale, spesso motivata da opportunismi economici, strategici o elettorali. E l’Italia? Il governo italiano, guidato da una leader che si dichiara madre, cristiana e patriottica, ha scelto non solo di non condannare le violazioni israeliane, ma di sostenere apertamente l’offensiva, contribuendo al massacro con la fornitura di bombe prodotte in Italia e impiegate proprio contro la popolazione civile di Gaza. È una contraddizione profonda e dolorosa: come può dirsi madre e cristiana e contemporaneamente fornire strumenti di morte usati per massacrare donne e bambini? Oltre 60.000 morti all’inizio del 2025, la maggior parte dei quali bambini, uccisi o mutilati.
Che se ne parli o meno, o che si minimizzi il racconto di Gaza, è evidente che fino a quando Israele continuerà a occupare, colonizzare e opprimere il popolo palestinese, ogni tregua sarà solo una pausa prima del prossimo ciclo di violenza. E la sicurezza di Israele non potrà mai essere costruita sulla disperazione e sull’annientamento dei palestinesi. Non esiste sicurezza senza giustizia. E la giustizia comincia con la fine dell’occupazione.
L'articolo è interessante e riporta dati storici ma ci sarà sempre qualcuno che troverà il pelo nell'uovo per attribuire colpe ai palestinesi, che comnunque ne hanno anche loro.
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