sabato 21 ottobre 2023

Gaza un altro episodio della guerra dei cent’anni tra Israele e Palestina un dramma irrisolto, anzi una tragedia permanente

di Torquato Cardilli - Faccio appello alla pazienza e soprattutto all’onestà intellettuale del lettore perché accetti di procedere facendo propria una premessa fondamentale, utile per far partire e sviluppare, un ragionamento politico con la prospettiva di un futuro migliore: rifiutare ogni ideologia, ogni faziosità razziale o religiosa, ogni schieramento politico, ogni pregiudizio.

Chi non fosse disposto a spogliarsi di qualsiasi posizione precostituita, dimentico dell’insegnamento di Manzoni che sosteneva come “ragione e torto non si dividono mai con un taglio netto che ogni parte abbia soltanto dell’uno e dell’altra” e invece insiste nella divisione del mondo in “good guys and bad guys”, dimostrando di essere da una parte, farà bene a non perdere tempo, a cancellare dalla memoria questo scritto, destinandolo al cestino. 

Il problema di Israele e della Palestina (nomi biblici che fanno parte della nostra storia e cultura) è antico. 

Oggi politici, analisti, intelligence, giornalisti, dopo anni di indifferenza, o di posizioni pre confezionate a scatola chiusa, sembrano cadere dal pero. 

Senza aver fatto alcuna riflessione sul fatto che l’assuefazione al dolore quotidiano rende insensibili alla compassione per le atrocità inflitte agli altri, l’Occidente intero, cullato sull’assunto che in fondo i palestinesi possono accontentarsi della miseria, della condizione di sudditanza, dell’assenza di diritti, di sopravvivere con stenti nei campi profughi, appare improvvisamente meravigliato dall’esplosione della barbarie, frutto dell’odio per le atrocità subite da tanti, troppi anni.

La tragedia orripilante dell’attacco di Hamas, commuove anche gli animi più duri e restii ai sentimenti di compassione, ma non può essere liquidata con l’esclusiva risposta militare di annientamento di massa della popolazione di Gaza. 

Essa va esaminata sul piano politico, giuridico e umanitario guardando con obiettività i precedenti storici del prima e allungando obbligatoriamente la vista sul dopo, evitando di sposare qualsiasi iniziativa di vendetta (concetto medioevale, vietato dal diritto internazionale), suggerita dall’ira che è una pessima consigliera. 

La filosofia ci ha insegnato che bisogna conoscere la storia per evitare di ripetere gli errori del passato. Questo è l’obbligo che incombe sulla politica, ignorato per troppo tempo da quel simulacro di istituzioni europee che parlano di armi e di guerra come se si trattasse di un videogame, e soprattutto dalla massima potenza che, con sbrigativa abitudine da far west, non ha mai pensato al dopo, come ci  ricordano, ogni giorno, le conseguenze drammatiche su milioni di persone dell’invasione dell’Iraq, dell’occupazione ventennale dell’Afghanistan, del bombardamento e della totale disarticolazione della Libia. 

Secondo Jung la maggior parte degli eventi della vita accadono per una ragione. Nulla accade senza motivo e quelli che non si rendono conto del fossato di odio che viene scavato incessantemente dal 1948 e che ingoia i palestinesi, generazione dopo generazione, priva di tutto, pure dell’essenziale, in campi profughi squallidi ove è assente la scuola e la cultura e alberga solo l’ignoranza e il desiderio di morte, sono responsabili del continuo scorrere del sangue, per lo più innocente.

Basterebbe riflettere un attimo sull’aforisma di de La Rochefoucauld secondo cui le liti non durerebbero così a lungo se il torto fosse da una parte sola.

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IL PRIMA

Chi abbia studiato un po’ di storia (cosa rara nei politici di oggi) sa che a cavallo dei secoli XIV e XV si svolse in Europa la guerra dei cent'anni tra l'Inghilterra, paese invasore, e la Francia, paese invaso. Fiammate più o meno lunghe di ostilità, con episodi di inaudita brutalità e ferocia, superiore a quella di oggi perché allora si uccideva guadando in faccia il nemico, si alternarono a periodi di pace effimera, fragile quanto la resistenza dei sigilli di ceralacca dei trattati che l'avevano conclusa.

Dopo un primo periodo di circa settant'anni la Francia passò alla riscossa, grazie a Giovanna d’Arco, audace nell'organizzazione della resistenza per cacciare gli inglesi dal suolo francese e per la riconquista di Orléans e poi di Reims ove Carlo VII di Valois fu incoronato re di Francia.

C'è oggi un'altra guerra dei cent'anni, questa volta non in Europa, ma in Medio Oriente, iniziata 75 anni fa, di cui la battaglia di Gaza in questi giorni tra palestinesi e israeliani non è che il più recente, ma non l’ultimo tragico episodio.

Bisogna necessariamente esaminare, seppure di corsa, la storia della Palestina per capire come si sia arrivati agli scontri ed alle efferatezze di oggi.

La Palestina, grande quanto la Sicilia, crogiolo di tribù semitiche di varie denominazioni (filistei, ebrei, cananei, nabatei, seleucidi) dal 70 d.C. (vittoria di Tito, distruzione del tempio di Gerusalemme e diaspora degli ebrei), rimase per sei secoli, sotto il dominio assoluto prima dell'impero romano d'occidente e poi di quello d'oriente. 

Nel 638 la Palestina, con una maggioranza assoluta di arabi ed un'esigua, insignificante minoranza di ebrei, fu strappata al dominio cristiano bizantino dal Califfo arabo Omar. 

Da allora il paese restò totalmente arabo, e islamico, nonostante le crociate dei monarchi europei e del papato, condotte con la giustificazione velleitaria di liberare il santo sepolcro, ma di fatto motivate dal desiderio di creare regni effimeri da distribuire a vari principi cadetti.

Solo nel 1500 la Palestina fu incorporata nel grande Islam del sultanato ottomano, erede del califfato arabo, restando sotto il dominio di Istanbul fino al 1918 a conclusione della prima guerra mondiale.

Alla fine del XIX secolo era nato in Europa il movimento sionista, organizzazione politica fondata da Herzl sul principio che un popolo senza terra aspirava ad una terra senza popolo (gli arabi palestinesi che vi abitavano venivamo considerati poco più di una nullità) per riunificarvi tutti gli ebrei sparsi nel mondo, sopravvissuti alle persecuzioni antisemite operate fino ad allora non dai musulmani, ma dai cristiani a Roma, in Spagna, in Portogallo, in Polonia e in Russia.

L’obiettivo sionista fu incoraggiato dal Governo inglese che nel 1917, con la dichiarazione Balfour (sottosegretario al Foreign Office), espresse l'assenso alla creazione, a guerra mondiale finita, di un focolare ebraico in Palestina.

Il governo inglese non aveva intenzione di creare uno stato ebraico in un territorio su cui nutriva invece mire di dominio a scapito degli ottomani, ma intendeva mostrare gratitudine verso la lobby ebraica per aver convinto gli Stati Uniti ad entrare in guerra a fianco dell'Inghilterra e per aver garantito il decisivo supporto dei circoli finanziari ebrei per sconfiggere il sultano di Istanbul, alleato degli imperi centrali.

Tra il 1915 e il 1916, prima della dichiarazione Balfour, l’Inghilterra aveva concluso l’intesa segreta, detta MacMahon-Hussein, secondo la quale, a conflitto mondiale terminato, il mondo arabo (Palestina, Siria, Libano, Iraq) liberato dal dominio di Istanbul avrebbe avuto la sua indipendenza, a patto che si fosse sollevato in guerra aperta contro l’impero ottomano.

Lo sceriffo della Mecca Hussein fu convinto a gettarsi nell'impresa dal colonnello dell'intelligence inglese Lawrence d’Arabia che, con un’audace campagna militare condusse le truppe beduine alla vittoria contro le varie guarnigioni turche e alla conquista del golfo e del porto di Aqaba, chiave strategica per il controllo definitivo del Canale di Suez.

Contemporaneamente l’Inghilterra giocava le sue carte diplomatiche anche su un terzo tavolo concludendo con la Francia, a maggio 1916, un’altra trattativa segreta, Sykes-Picot, con la quale svelava la sua natura imperialista concordando la spartizione delle spoglie dell'impero ottomano: l'Inghilterra avrebbe avuto il pieno controllo del golfo persico e della Palestina fino al canale di Suez, mentre la Francia sarebbe diventata padrona della Siria e del Libano.

Questa trattativa segreta fu rivelata agli arabi inconsapevoli, solo dopo che la Russia rivoluzionaria, divenuta Unione Sovietica, si era ritirata dal conflitto mondiale ed aveva cominciato a scoperchiare i segreti militari e politici custoditi negli archivi zaristi.

La pace di Versailles del 1919 cristallizzò la spartizione anglo-francese. 

Gli arabi si sentirono completamente traditi, come lo furono i pellerossa dai colonizzatori bianchi. 

Senza ulteriori indugi l’Agenzia internazionale ebraica, forte della dichiarazione Balfour, incominciò a promuovere una consistente ed incessante emigrazione di ebrei verso la Palestina dalla Russia, Polonia, Germania, Francia, Belgio, Olanda.

Allo scoppio della II guerra mondiale l'imperialismo occidentale fu ancora una volta protagonista di un altro tradimento politico ai danni degli arabi palestinesi. Gli Alleati chiesero loro di opporsi all'occupazione da parte delle forze dell'Asse del canale di Suez, vitale per i rifornimenti necessari all’Inghilterra, provenienti dalle provincie dell'impero. Per contrappeso chiesero agli ebrei (che avevano tutti una cultura occidentale con conoscenza di almeno una lingua europea o slava) di arruolarsi per condurre vere e proprie operazioni militari contro la Germania sul terreno europeo.

Gli inglesi inserirono nel loro schieramento nei vari teatri di guerra (Grecia, Francia, Italia), un corpo militare ausiliario, denominato legione ebraica seppure di poche decine di soldati, riconoscendole l'uso di una bandiera con la stella di Davide, che diventerà poi la bandiera ufficiale di Israele.

A guerra ultimata gli arabi di Palestina e gli ebrei di nuova immigrazione reclamavano la sovranità sul paese: i primi vi vantavano una presenza fissa da 1400 anni, mentre i secondi fondavano la loro rivendicazione sui legami biblici con la terra promessa, anche se il loro progenitore Abramo, nativo di Ur, era un immigrato dalla Mesopotamia. 

Il Congresso sionista mondiale, decise che la Palestina dovesse essere trasformata in uno stato ebraico a tutti gli effetti ed ottenne l’unanime approvazione politica sia dal partito democratico sia da quello repubblicano degli Stati Uniti.

L’afflusso di profughi ebrei in Palestina assunse nell'immediato dopoguerra enormi proporzioni: a fronte di 1 milione e 400 mila arabi residenti, gli ebrei che a inizio del secolo erano solo il 5% della popolazione, arrivarono a contare 700 mila persone di cui 300 mila provenienti dall’Urss e paesi satelliti. Per avere un’idea dell’afflusso (in massima parte illegale) di ebrei dall’estero verso la Palestina basta ricordare che il primo capo del governo israeliano (Ben Gurion) era polacco, seguito da tre primi ministri nati in Ucraina (Sharret, Eskhol e Golda Meir) e poi da altri tre nati in Bielorussia (Begin, Shamir, Peres).

Gli arabi intentarono ogni forma di protesta contro il mandato britannico, temendo di essere derubati del proprio paese dagli ebrei che compivano azioni di intimidazione di estrema durezza, incendiando le case dei palestinesi, distruggendo gli orti ed espellendoli con la forza.

Nel tentativo di placare le proteste, i sabotaggi e gli assassinii dall’una e dall’altra parte, il governo inglese promosse l’istituzione di varie Commissioni internazionali e Comitati di indagine, con il compito di individuare una soluzione di pacificazione tra i due campi avversi, con la pregiudiziale che fosse comunque un dovere internazionale concedere un rifugio a un popolo che era stato minacciato di annientamento dalla Germania nazista, come riparazione per le crudeltà subite.

Tutti questi convegni concordarono che la sola soluzione possibile era la mera spartizione del paese in due stati: uno ebraico e l’altro arabo-palestinese i cui abitanti, pur non avendo nessuna colpa delle sofferenze patite dagli ebrei, venivano condannati a pagarne il prezzo.

Quel tempo fu punteggiato da una catena di atti terroristici condotti da organizzazioni paramilitari illegali ebraiche (Irgun) sia contro la potenza mandataria in Palestina (attentato dinamitardo al king David hotel di Gerusalemme sede del comando inglese con 137 vittime), sia contro gli arabi culminati con il massacro di oltre 200 civili, incluse donne e bambini, nel villaggio arabo di Deir Yassin, sia contro le Nazioni Unite con l’assassinio del loro delegato, il conte svedese Bernadotte, ostile ad una divisione della Palestina senza tener conto del rapporto numerico degli abitanti a discapito dei palestinesi.

Per ironia della storia il capo di queste spedizioni terroristiche Menachim Begin, diventerà poi primo ministro di Israele, ruolo nel quale però dimostrò maggiore lungimiranza di tanti suoi connazionali ancorati alla negazione dei diritti dei palestinesi.

L'ONU, grazie anche al deciso appoggio dell’URSS che diede il voto mancante, decretò il 29 novembre 1947 con la risoluzione 181 la spartizione della Palestina in 7 province 3 per gli ebrei, 3 per gli arabi ed 1 neutra considerata internazionale di Gerusalemme, città sacra alle tre religioni monoteiste, da attuarsi entro due anni, data della cessazione del Mandato britannico.

La spartizione attribuiva agli ebrei, che erano la metà dei palestinesi cioè un terzo degli abitanti totali della Palestina, il 56% del territorio, mentre agli arabi che erano il doppio solo il 43%. 

Disordini e sabotaggi, azioni di puro terrorismo da ogni parte fecero capire al Governo inglese che era arrivato il momento di tirarsi fuori da quel ginepraio, creato dalla sua politica imperialista del “divide et impera”. 

Londra comunicò all’ONU che si sarebbe ritirata definitivamente dalla Palestina, il 15 maggio 1948, un anno prima del previsto.

Gli ebrei, già organizzati con uno scheletro di struttura amministrativa, non aspettavano altro e proclamarono immediatamente, nella zona a loro assegnata, la creazione dello Stato di Israele, riconosciuto dagli Stati Uniti in appena due ore, e subito dopo dall’Urss, mentre gli arabi sentendosi defraudati, considerarono Israele un usurpatore da ricacciare in mare e respinsero la decisione dell'Onu, adottata con un solo voto di scarto (quello dell’Urss) e con la contrarietà di tutti gli stati del Medio Oriente e dell'Asia. 

Nel 1948, avevo appena sei anni, vestivo i calzoni corti, quando scoppiò la prima guerra arabo-israeliana.

Gli eserciti di Egitto, Transgiordania e Siria, composti da soldati raccogliticci ed analfabeti, con armamenti antiquati risalenti alla guerra di Lawrence d’Arabia, varcarono i rispettivi confini pensando che fosse una semplice scorreria di predoni del deserto. Invece furono sconfitti ed umiliati dagli israeliani portatori della tecnologia occidentale, con un elevato livello di istruzione, con ufficiali di cultura superiore, dotati di armamenti moderni, generosamente forniti dagli Stati Uniti che intendevano svuotare i loro arsenali e con l’appoggio politico dell’Urss e di tutti i paesi occidentali che sentivano il rimorso di coscienza per aver assistito senza reagire allo sterminio nazista.

Con l'armistizio del 1949 imposto dall'ONU Israele stabilì i propri confini laddove erano arrivati i suoi soldati, cioè ben al di là (15% in più) della linea spartitoria della Palestina stabilita due anni prima e nel chiedere l'ammissione all'ONU si impegnò a rispettare la risoluzione 181 che prevedeva lo statuto speciale per Gerusalemme. Ma, a ammissione ottenuta, rifiutò di adempiervi con varie motivazioni e pretesti.

L’opinione pubblica mondiale aveva ancora in mente e negli occhi gli orrori dell’olocausto, dei campi di concentramento, delle camere a gas, dei forni crematori, della ferocia nazista che aveva fatto stragi di innocenti anche in Italia dalle Fosse Ardeatine a Marzabotto ecc. Quindi fu istintivo, naturale, che la commozione profonda favorisse lo schieramento a fianco di Israele e la condanna degli aggressori, cioè le monarchie arabe, che minacciavano di ripulire l’intera Palestina dalla presenza ebraica.

Gli israeliani trovandosi in una posizione di vantaggio politico e di forza sul terreno espulsero con le armi dal loro paese e dal territorio di nuova occupazione alcune centinaia di migliaia di arabi-palestinesi che vi dimoravano da secoli, sottoponendoli ad ogni tipo di vessazione, e dando il via alla più mostruosa deportazione di innocenti costretti per tutte le generazioni successive a vivere senza diritti e senza speranza, nell’indigenza, nell’ignoranza, nell’assoluta mancanza di assistenza sanitaria.

Da quel momento gli arabi palestinesi sprofondarono in un gorgo di estrema frustrazione, per gli stenti, l'umiliazione, il dolore di aver abbandonato le loro case e terre, la miseria di una vita nei campi profughi, acuita dal tradimento da parte dei governi del Cairo di Amman e di Damasco. 

Egitto, Transgiordania e Siria, anziché favorire la costituzione, seppure con un governo provvisorio, di uno Stato arabo di Palestina così come previsto dall’ONU, (cosa che avrebbe evitato le carneficine che si sono susseguite fino ad oggi e che continueranno per enne anni), senza alcuna giustificazione giuridica, incamerarono quelle terre imponendovi le proprie leggi. L’Egitto procedette all'annessione della striscia di Gaza, la Transgiordania inglobò la Cisgiordania cambiando il proprio nome in regno di Giordania e la Siria le alture del Golan. 

La cosa non dispiacque né a Israele, né al mondo occidentale che considerarono chiusa la partita con il pacifico popolo palestinese diventato un popolo come ebbe a dire Frantz Fanon di “damnés de la terre”, vessato da Israele e strumentalizzato dai governanti arabi, la cui retorica guerrafondaia serviva solo a giustificare il loro potere.

La sconfitta militare innescò nei paesi arabi la scintilla rivoluzionaria: in Egitto e in Siria presero il potere i militari che, strumentalizzando il rancore, la frustrazione, il desiderio di vendetta dei rifugiati, posero al primo punto della politica estera la rivendicazione della totale liberazione della Palestina, con minaccia di distruzione del neonato stato di Israele, considerato un corpo estraneo, come all’epoca delle crociate, in un mondo totalmente arabo.

Da allora, per oltre 70 anni, è stato un susseguirsi, a sussulti, di guerre e di atti di terrorismo sempre più efferati, di lutti e dolori immensi di cui ancora una volta hanno fatto le spese in ultima analisi gli incolpevoli palestinesi, ingannati dalle ipocrite dichiarazioni di pace degli attori sul campo e delle potenze occidentali, le cui promesse erano bolle vuote spazzate via dal vento impetuoso delle continue sopraffazioni. 

Se Ben Gurion passò alla storia di Israele come il fondatore dello Stato, l’egiziano Nasser pretese di diventare l’unificatore dell'intera nazione araba. 

Non potendo però condurre nessuna operazione militare di liberazione della Palestina per la manifesta inferiorità rispetto ad Israele, volle prendersi una rivincita politica contro l'imperialismo occidentale e nel 1956 nazionalizzò il canale di Suez amministrato da gran Bretagna e Francia, con l’obiettivo di presentarsi al terzo mondo come il campione della liberazione contro il colonialismo ancora imperante.

I governi di Londra e Parigi, in puro stile imperialista, non esitarono a dichiarargli guerra con l’invio di un corpo di spedizione che occupò un bel pezzo di Egitto (canale compreso). 

Israele, senza una plausibile ragione di autodifesa, desideroso di espandersi inseguendo il sogno mai sopito della creazione del grande Israele, si unì all’aggressione franco-britannica dilagando nel Sinai egiziano per arrivare rapidamente al canale di Suez e ricongiungersi con gli altri occupanti.

Anche in questo caso l'esercito egiziano subì una umiliante sconfitta, trasformata però in vittoria politica grazie alla minaccia dell’URSS di uso della bomba atomica su Londra se non fosse stata fermata subito l’aggressione. 

Gli Stati Uniti allora obbligarono Francia e Inghilterra al ritiro immediato, mentre a Israele in cambio della restituzione agli egiziani del Sinai venne garantita la protezione militare con apposito trattato. Tuttavia Israele, nell’acquiescenza occidentale, ritirando il suo esercito ritenne di ritagliarsi ancora delle correzioni di confine a suo vantaggio e rifiutò di applicare le varie risoluzioni dell’Onu che prevedevano il ritorno dei rifugiati esuli.

Soffiando sul fuoco del rancore anti occidentale e anti imperialista, Nasser pensò di fondere il suo paese con la Siria e l’Iraq creando la repubblica araba unita e poi con un patto militare di mutua assistenza con la Giordania, manifestò il disegno di stringere Israele, già colpita dal boicottaggio economico, in una morsa fatale. 

Ancora una volta prevalse in entrambe le parti l’assenza di realismo: Israele si ostinava a reclamare il diritto all’autodifesa realizzabile solo occupando l’intera Palestina sulla base della promessa divina e ancorata al principio del “muoia Sansone con tutti i filistei” (Palestina in arabo è Filastìn) ed era determinata a costo del sangue ad impedire che ai suoi confini nascesse uno stato palestinese arabo autonomo come stabilito dalle Nazioni Unite. Sull’altro fronte fu fondata l’OLP sotto la guida dell’estremista Shukairy, sostituito tre anni dopo da Arafat, con l’obiettivo della liberazione di tutta la Palestina, sostenuta da Egitto, Giordania, Siria, Giordania, Libano con la copertura nelle retrovie di Iraq e Arabia Saudita che pretendevano, contro la volontà della comunità internazionale, la estinzione dello stato di Israele, illudendo gli sventurati rifugiati che avrebbero potuto rientrare nelle loro case e nelle terre usurpate.

Dopo uno stillicidio di azioni ostili e di inutili bombardamenti di confine sui tre fronti, Nasser impose il blocco navale del golfo di Aqaba, con l’intenzione di strangolare i commerci marittimi israeliani dal porto di Eilat.

Di fronte a questi eventi il governo di Tel Aviv si convinse che il rullo dei tamburi di guerra fosse sempre più vicino al massimo decibel e, anziché attendere il possibile attacco arabo, da probabile aggredito divenne aggressore decidendo di cogliere di sorpresa i suoi nemici con una guerra preventiva totale.

All'alba del 5 giugno 1967 Israele attaccò gli aeroporti militari di Egitto e Siria, distruggendo al suolo l'intera forza aerea nemica. Quindi le fanterie arabe dislocate nel Sinai, in Cisgiordania e nelle alture del Golan siriano, prive di ogni copertura aerea, furono falcidiate da pesanti attacchi dall'aria e da terra.

Al sesto giorno di guerra gli arabi erano stati totalmente sconfitti su tutti i fronti con la perdita di quasi 20 mila caduti, 30 mila feriti e più di 100 mila prigionieri; l'Egitto era stato privato dell’intera penisola del Sinai, la Giordania aveva perso tutta la Cisgiordania compresa metà Gerusalemme, la Siria le alture del Golan e il Libano alcune limitate correzione dei confini.

Israele si era territorialmente espanso su una superficie più del doppio di quella decretata dalle Nazioni nel 1947. 

Il nuovo intervento di USA e URSS impose il cessate il fuoco sulle posizioni di controllo militare del territorio, e incominciarono ad interrogarsi come porre fine a queste guerre che duravano da venti anni.

Nasser, umiliato dalla sconfitta (vide tornare a casa i suoi reduci a decine di migliaia, fatti prigionieri da Israele e rimandati indietro nel deserto a piedi nudi, senza scarpe) si dimise, ma a furor di popolo fu pregato di rimanere al suo posto. Rincuorato dal supporto popolare capeggiò il fronte del rifiuto con i tre no dell’intero mondo arabo stabiliti dalla Lega Araba a Khartum (no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no a negoziati diretti o indiretti). 

La diplomazia internazionale invece, dimostrando lungimiranza, lavorò intensamente per trovare una soluzione giuridica. Dopo 5 mesi fu varata la risoluzione 242 del CdS dell’ONU che stabiliva: il divieto di acquisizioni territoriali con la forza, l’obbligo per Israele di non mutare lo status internazionale di Gerusalemme, l’obbligo per Israele di ritirarsi dai territori occupati. 

Ma fu come se questa ultima parola “occupazione” fosse stata scritta sulla pietra di ingresso di ogni parlamento europeo e americano, perché destinata ad essere calpestata dal doppio standard del mondo occidentale.

Israele, forte del rifiuto arabo di ogni negoziato, pur professando la disponibilità al ritiro in cambio del riconoscimento, instaurò nei territori conquistati un regime militare di segregazione e discriminazione verso gli arabi rimasti e con un atto unilaterale decretò l’annessione e la proclamazione di Gerusalemme come sua eterna capitale senza tener conto di quanto stabilito dall’ONU che considerava questo atto illegale e senza valore giuridico.

Quindi fu dato inizio ad un vasto programma di colonizzazione dei nuovi territori per costruirvi illegalmente insediamenti di coloni provenienti dall’estero, previa demolizione delle povere case palestinesi, confisca delle proprietà agricole e espulsione di circa 200 mila palestinesi, di cui molti erano già rifugiati dopo la guerra del 1948. 

Nel 1968 fu istituito un Comitato Speciale delle Nazioni Unite con il compito di indagare sulle violazioni del diritto internazionale a danno dei palestinesi, ma Israele vi si oppose: non partecipò alle riunioni del Comitato a cui vietò persino l’ingresso nei suoi territori.

Fine del discorso.

Da allora nessun progresso, se non la continua negazione dei diritti dei palestinesi ad una patria, ad una vita libera senza l’oppressione delle armi, con una crescente frustrazione destinata a sfociare in odio assoluto che ha alimentato la stagione del terrorismo da parte dell’OLP e di una moltitudine di altre organizzazioni armate dislocate in varie capitali arabe. 

Anni di dirottamenti aerei con centinaia di vittime innocenti, strage alle olimpiadi di Monaco, sequestro della nave Achille Lauro, attentati dinamitardi un po’ ovunque in Europa (comprese le stragi di fronte alla sinagoga di Roma e a Fiumicino), destabilizzazione dei paesi dove vivevano i profughi (in Giordania e in Libano). 

In Giordania re Hussein, per stroncare ogni tentativo di abbattimento della monarchia decise un’operazione di vera pulizia etnica anti palestinese. 

Al culmine di sanguinosi episodi di scontri tra rifugiati e esercito giordano schierato a difesa della monarchia, furono massacrate varie migliaia di profughi palestinesi. 

In Libano le turbolenze falangiste e delle milizie private e poi degli hezbollah offrirono ad Israele il destro per un’occupazione e sanguinose incursioni militari sempre contro i campi profughi con conseguenti massacri come quello di Sabra e Shatila operato dagli estremisti libanesi sotto la protezione degli israeliani comandati da Sharon. 

Per quanto possa apparire strano il terrorismo era finanziato dalle monarchie arabe della penisola ed anche delle repubbliche di Egitto, Siria e Libia che pur di non avere problemi in casa (come era stato per la Giordania e il Libano), d’intesa con i servizi Usa (Cia) e perfino israeliani (Shin Bet e Mossad) perseguivano l’obiettivo di sminuire il grado di rappresentatività dell’OLP, sicuri di potersene liberare al momento opportuno. 

Nel giorno dello Yom Kippur (festa ebraica) dell’ottobre 1973 Egitto, Giordania e Siria scelsero la via della guerra per recuperare ciò che avevano perduto in termini territoriali e di onore. Israele fu preso alla sprovvista, ingannato nelle valutazioni dal fatto che l’Egitto aveva manifestato di abbandonare ogni ipotesi di rivincita militare avendo espulso dal paese alcuni mesi prima tutti i consiglieri, gli istruttori e i militari sovietici.

In una condizione di imminente sconfitta Israele fu salvata dall’aiuto concreto americano con invio di piloti militari statunitensi con cittadinanza israeliana e di tecnologia satellitare che svelò il punto debole dello schieramento egiziano per consentire una manovra di accerchiamento con invasione di parte dell’Egitto da Sud oltre il canale di Suez puntando dritti sul Cairo. 

Ancora una volta Usa e Urss, consci che l’Egitto andava salvato per non sconvolgere l’equilibrio dell’intero Medio Oriente, trovarono l’accordo nell’imporre un nuovo armistizio che fotografava la situazione militare sul terreno favorevole ad Israele.  

La cessazione delle ostilità non fermò la continua ascesa di popolarità tra i rifugiati dell’OLP riconosciuta dalla Lega araba nel 1974 come legittima rappresentante del popolo palestinese.

A dispetto dei responsabili politici internazionali, rivelatisi parolai ipocriti, emersero negli anni a seguire tre leader lungimiranti, intenzionati a far inaridire il fiume del sangue innocente versato inutilmente. 

Sadat, re Faisal e Rabin furono capaci di saltare il fosso dell’inimicizia eterna, ma pagarono l’audacia della ricerca della pace con la loro vita.

Il primo firmò il trattato di pace con Israele (accordo di Camp David del 1978 tra Sadat, Begin e Carter) ottenendo la restituzione della penisola del Sinai. Sadat fu espulso dalla Lega Araba e tre anni dopo assassinato in un complotto della jihad islamica durante una parata militare.  

L'OLP aveva rifiutato sin dall’inizio la risoluzione 242 dell'ONU, ma con gli accordi di Camp David nel 1988 piegò la sua linea di intransigenza al realismo politico consentendo l'avvio di un cauto avvicinamento al negoziato con Israele, anche perché re Hussein di Giordania aveva rinunciato a qualsiasi rivendicazione sulla Cisgiordania.

A novembre dello stesso anno il consiglio Nazionale dell’OLP dichiarò l'indipendenza (virtuale) dello Stato di Palestina sul territorio della Cisgiordania e su Gaza, proprio con riferimento giuridico alle risoluzioni 181 e 242 dell'ONU e riconoscendo implicitamente Israele.

L'Assemblea generale delle Nazioni Unite prese atto della dichiarazione d'indipendenza e permise all'OLP di adottare il nome di "Palestina" nella sua qualità di stato osservatore presso l'ONU. A metà 1989, oltre 90 stati avevano giù riconosciuto la Palestina come Stato. 

Pochi anni dopo anche la Giordania seguì l’esempio dell’Egitto per un analogo accordo con Israele dato che Lega Araba e i palestinesi si erano rassegnati ad abbandonare ogni proposito di cancellazione dello stato di Israele, accettando i confini del 1967. 

Ma questi accordi non saldarono il conto delle sofferenze dei palestinesi che si sentirono abbandonati, costretti a subire inermi le severe restrizioni, la continua negazione dei diritti umani, la colonizzazione selvaggia nei loro territori della Cisgiordania per fare posto a arrivi di ebrei dall’Urss in sfacelo e dagli altri paesi dell’Est Europa.

Negoziati svolti tra le parti in assoluta segretezza per uno "status finale" del conflitto israelo-palestinese, prima a Londra, poi a Zagabria e infine in Norvegia sfociarono appunto negli accordi di Oslo che nel 1993 riconoscevano l'OLP come partner di Israele nei negoziati sulle questioni in sospeso e l'istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, incaricata di un limitato potere di autogoverno su parte della Cisgiordania e su Gaza.

Rabin e Arafat (poi insigniti con Peres del premio Nobel per la pace) si scambiarono le lettere ufficiali di reciproco riconoscimento con una cerimonia a Washington auspice il presidente USA Clinton. 

Israele si impegnò a ritirarsi da Gaza e dall’area di Gerico consentendo ad Arafat di rientrare dall’esilio e di stabilire il quartier generale a Ramallah in Cisgiordania, abbandonando la sede provvisoria di Tunisi.

I negoziati proseguirono e sfociarono nel 1995 nei cosiddetti accordi di Oslo 2 che ampliavano parzialmente l'autogoverno palestinese in Cisgiordania, ma che non risolvevano la questione di Gaza, sigillata da Israele con l’impedimento per gli abitanti di uscire, di avere collegamenti aerei e marittimi. 

Al Fatah accettò gli accordi, ma gli altri gruppi massimalisti Hamas, la Jihad islamica, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, al-Qaida obiettarono che gli Accordi di Oslo non esaudivano le aspirazioni del popolo palestinese: il ritorno a casa, l’autodeterminazione e la fondazione di uno stato palestinese libero e indipendente.

In sostanza i nodi cruciali del conflitto (stabilimento dei confini dei due paesi, blocco degli insediamenti dei nuovi coloni israeliani in Cisgiordania, ritorno dei profughi) restarono irrisolti per la pervicacia israeliana nel continuare l'espansione degli insediamenti accelerata di cinque volte rispetto alla normale crescita, ingenerando frustrazione tra i palestinesi e una generale sfiducia sugli accordi e sulle intenzioni israeliane. 

La seconda vittima del tentativo di pace fu re Faisal dell’Arabia Saudita che nel 1973 utilizzando l’arma dell’embargo petrolifero indusse gli Stati Uniti ad obbligare Israele a fermarsi dall’invadere l’Egitto ed accettare il cessate il fuoco. Fu assassinato nel 1975 da un nipote rientrato dagli Stati Uniti. Nel processo di regicidio che condusse all’esecuzione capitale, si finse pazzo; il gesto folle fu attribuito a dissidi familiari, mentre i ventilati sospetti che l’omicidio fosse in relazione alla manifestata volontà di protezione dei palestinesi non trovarono conferme.

La terza vittima fu il primo ministro israeliano Rabin che tentò invano di indurre la destra più reazionaria del suo paese a credere nella possibilità di una soluzione negoziata di cessazione finale di ogni ostilità in cambio dello stabilimento di confini certi e dello stop agli insediamenti coloniali. Aveva appena finito di illustrare questo piano in un grande discorso alla nazione la sera del 6 novembre 1995 che fu assassinato da un fanatico estremista contrario ad ogni accordo con i palestinesi.

Israele, smentendo nei fatti ogni pacifismo di maniera, non ha mai cessato la continua colonizzazione della Cisgiordania a macchia di leopardo, ed ha reagito con inusitata durezza alle varie rivolte (Intifada 1 e 2) nei luoghi santi islamici profanati da Sharon e i suoi armati, agli inutili lanci di razzi degli estremisti di Hamas o degli Hezbollah, da Gaza e dal Libano, seppellendo nei crateri delle bombe tanti innocenti e tante speranze.

A gennaio 1996 si tennero le prime elezioni del consiglio legislativo dell'Autorità Nazionale Palestinese. Arafat fu eletto presidente. 

Cinque anni dopo Clinton, sempre a camp David, fece un ennesimo tentativo prima di concludere la sua presidenza per mettere il sigillo della pace sui rapporti israelo-palestinesi. Le pressioni su Barak e su Arafat non diedero il risultato sperato, perché entrambi dovevano fare i conti con le frange più estremiste e massimaliste dei loro paesi.

Nel campo arabo i gruppi estremisti che non si riconobbero nell’OLP trovarono un punto di riferimento nel movimento di Hamas operante a Gaza sin dal 1987 con l'impiego nella lotta terroristica (così come al-Qaida), decisamente alternativa rispetto a quella più diplomatica dell'OLP.

Il terrorismo aveva superato i confini territoriali del Medio Oriente per dilagare nell’intero Occidente a partire dagli Stati Uniti, come testimoniato nel 2001dall’attacco alle torri gemelle di New York (eseguito da 11 terroristi sauditi ed 1 egiziano che non avevano nulla a che fare con la Palestina) e da atti terroristici in mezza Europa.

Ad ogni errore politico arabo, ad ogni attentato terroristico fatto all’estero dagli estremisti, Israele ha sempre reagito per riportare al suo fianco i paesi occidentali tentennanti per la perdurante occupazione di territori arabi e per la discriminazione dei loro abitanti.

Nel 2002 Sharon scatenò un’ampia offensiva militare a Gaza e in Cisgiordania arrivando a mettere sotto assedio persino il quartier generale di Arafat che vi rimase prigioniero a lungo.

Il presidente americano Bush jr., che si riteneva vittorioso dopo il disastro dell’aggressione all’Iraq, delineò un nuovo programma per la creazione dello Stato palestinese, affidando il compito di una proposta dettagliata al quartetto (Usa, Russia, UE e Onu) che restò senza risultati per l’insistenza di Israele di continuare ad espandersi all’interno del territorio giordano spaccandolo con un muro (l'85% del tracciato all'interno del territorio palestinese), e con filo spinato. 

Unico segno di parziale distensione arrivò nel 2005 da Sharon che decise il ritiro unilaterale da Gaza restituita nominalmente all’amministrazione dell’autorità nazionale palestinese conservando tuttavia il rigido controllo dei confini terrestri e dello spazio aereo.

Ma le elezioni del gennaio 2006 per il consiglio legislativo (cioè il parlamento) dell’ANP furono inaspettatamente vinte da Hamas, mentre il Partito di al Fatah, che era stato a guida del movimento palestinese dall’inizio, arrivò secondo.

Israele, gli Stati Uniti e l'Unione Europea per lo smacco politico reagirono imponendo sanzioni contro Hamas, che consideravano un'organizzazione terroristica, sollecitando al Fatah a fare altrettanto. 

Hamas, prima che si scatenasse una guerra fratricida, seppur priva del riconoscimento internazionale riservato solamente all’OLP, cioè all’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, espulse al Fatah da Gaza assumendone il controllo totale.

Alle sanzioni contro Hamas Israele aggiunse un severo blocco navale e terrestre per il controllo centellinato dei rifornimenti di ogni tipo e degli aiuti internazionali da parte di organizzazioni umanitarie e dell’ONU. 

Bush jr. fece un nuovo tentativo per arrivare ad una soluzione del conflitto con il riconoscimento dei due stati e convocò una conferenza internazionale ad Annapolis il 27 novembre 2007. Alla presenza di 49 delegati le delegazioni israeliana e palestinese erano guidate al più alto livello dal premier israeliano Olmert e dal leader dell'OLP Abu Mazen. Al termine il presidente Bush lesse una dichiarazione congiunta di Israele e OLP, che concordavano sull'intenzione di compiere ogni sforzo per raggiungere un accordo che mettesse in pratica gli impegni assunti di una soluzione che prevedeva la costituzione di due stati.

Ma nel gennaio 2009 giunse a scadenza il mandato di quattro anni con cui Abu Mazen era stato eletto presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese. Nel timore di vedersi sconfitto, dato il crescente supporto che Hamas riscuoteva non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania, con un colpo di mano prorogò sine die il suo mandato negando lo svolgimento di nuove elezioni.

Ovviamente Hamas reagì negando la legittimità di Abu Mazen che continuava invece a ricevere il riconoscimento della comunità internazionale.

Le cose non cambiarono con l’avvento alla casa bianca per otto anni del nuovo presidente democratico. Barak Obama. Convinto che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese fosse “di vitale interesse per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” chiese ripetutamente al governo di Netanyahu di interrompere ogni espansione degli insediamenti nei territori palestinesi occupati, senza scalfire la tetragona cocciutaggine del premier israeliano.

Agli osservatori arabi questa richiesta di Obama apparve da subito come una mossa ipocrita, tesa ad acquisire il loro consenso senza concedere nulla e infatti fu smascherata agli inizi del 2011 quando gli USA posero il veto su una risoluzione dell'ONU di condanna degli insediamenti definiti illegali. 

L’anno seguente, nel tentativo di allargare comunque il ventaglio del riconoscimento internazionale, Abu Mazen presentò all’Assemblea generale delle NU la richiesta di modificare la qualifica di osservatore della Palestina da entità a stato non membro.

Questa volta, a dimostrazione di come la comunità internazionale marciasse su linee d’onda diverse da quelle dei cinque grandi, la richiesta riscosse un grande successo; 138 paesi a favore, 9 contrari (tra cui USA e Israele) e 41 astenuti. Per quanto simbolico, il riconoscimento permise alla Palestina di poter diventare membro di altre organizzazioni come la Corte Penale internazionale.

Ma la strada della pacificazione era lastricata da macigni insuperabili: la popolazione ebraica degli insediamenti era cresciuta a 340.000 coloni in Cisgiordania più altri 200.000 a Gerusalemme Est. 

La Giordania a fine 2014 chiese formalmente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che entro il 2017 cessasse la nuova occupazione israeliana dei territori palestinesi, con una ripresa dei negoziati che avrebbero dovuto portare a un accordo sulla soluzione dei due stati entro i confini del 1967.

Anche in questo caso gli Stati Uniti votarono contro, insieme all’Australia, mentre si erano espressi a favore Russia, Cina, Francia, Argentina, Cile, Ciad, Giordania, Lussemburgo con l’astensione del Regno Unito, Lituania, Nigeria, Corea e Ruanda.

Due anni dopo, il 23 dicembre 2016, il Consiglio di Sicurezza approvò la risoluzione 2334 con 14 voti e con l’astensione degli Stati Uniti che chiedeva ad Israele di porre fine alla politica di insediamenti nei territori palestinesi occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme est, ribadendo che non riconosceva alcuna modifica dei confini del 1967 se non quelle concordate dalle parti con negoziati ad hoc insistendo che il negoziato rappresentava l’unica via per porre termine al conflitto in Medio Oriente con la soluzione dei due stati. 

Il presidente Obama nell’imminenza della fine del suo mandato non volle legare il suo nome alla negazione dei diritti dei palestinesi e si rifiutò di utilizzare il veto, però non si rese conto che avrebbe dovuto disporre di un piano B nel caso certo di rifiuto di Israele ad applicare la risoluzione.

Quando la sua amministrazione chiese con insolita fermezza la fine degli insediamenti, al diniego irremovibile di Netanyahu Obama rimase senza parole, senza abbozzare la minima decisione.

Questa posizione di chiusura definitiva da parte israeliana non fece altro che esasperare gli animi e Hamas ritenendo fallimentare la politica di Abu Mazen di contare sulle risoluzioni dell’ONU optò per un continuo lancio di razzi sulle cittadine israeliane al confine sud di Gaza per lo più caduti in zone disabitate o neutralizzati dalla difesa anti missile. A questa offensiva il governo di Netanyahu rispose con una dimostrazione di forza sottoponendo Gaza ad un bombardamento a tappeto con parecchie migliaia di vittime tra la popolazione civile. 

La riprovazione internazionale indusse il Consiglio per i diritti umani dell’ONU con 24 voti a favore (senza nessun paese UE), 9 contro e 14 astensioni, a deliberare un’indagine internazionale per la sproporzione della rappresaglia e per la violazione dei diritti umani commessa contro i palestinesi nei territori occupati.

La risoluzione non fu rispettata da Israele e questo atteggiamento non fece che esasperare ulteriormente gli abitanti di Gaza aizzati ad una resistenza a oltranza da Hamas che da allora si preparò all’attacco di questi giorni: orrore su orrore.  

L’OGGI

A tre quarti di secolo dalla conclusione del secondo conflitto mondiale e a cinquanta anni dalla guerra del Kippur assistiamo ancora una volta all’esplosione della ferocia più folle nella continuazione della guerra dei cent’anni del Medio Oriente.

Non ho l'ambizione di fare la cronaca puntuale dell'oggi che viene già abbondantemente illustrata in continuazione da tutti i media.

Hamas ha sferrato un attacco di inusitata barbarie uccidendo alla cieca e sequestrando cittadini israeliani inoffensivi con un’incursione all’interno del loro Stato, preparata da tempo.

Il mondo occidentale è rimasto attonito per poi schierarsi a fianco di Israele, scelta legittima e giustificata se non ci fosse stata la solita sceneggiata dello sceriffo del mondo, il presidente della guerra, che non ha esitato a minacciare fuoco e fiamme, ad inviare armi ad Israele, a spedire nella zona le sue portaerei, a convocare i capi di governo europei, della Commissione UE, del Parlamento europeo, della Nato perché facessero subito un cordone pro governo di Tel Aviv.

Israele dopo 48 ore di smarrimento è stato travolto da un’ondata di ira vendicativa, che ha riesumato ricordi medioevali di messa a ferro e a fuoco ogni proprietà del nemico.

Replicando alla rovescia l’assedio romano della fortezza di Masada del 73 d.C., conclusosi con il suicidio di massa degli assediati, ha sigillato ermeticamente Gaza (2 milioni 400 mila abitanti di cui il 40% di età inferiore ai 14 anni), senza luce, senza acqua, senza medicinali, senza viveri, senza carburante in un assedio, vietato dal diritto internazionale. Ha applicato il criterio moltiplicatore della rappresaglia nei termini di 1000 a 1 (questo è il rapporto già seguito per ottenere la liberazione di un soldato contro mille detenuti palestinesi), con l’intenzione di punire un milione di civili (di cui 400.000 bambini) che non c’entrano con Hamas prima con un incessante bombardamento a tappeto (pure sugli ospedali) praticamente impedendo qualsiasi via di fuga.

Chissà se i politici e i generali israeliani abbiano mai pensato che i bambini palestinesi sono identici a quelli israeliani e che se i primi riusciranno a sopravvivere e diventare adulti, conserveranno per sempre negli occhi e nella psiche gli orrori vissuti, il costante urlo dell’allarme aereo, le assordanti deflagrazioni dei bombardamenti, la perdita dei nonni, dei genitori, dei fratelli.  

IL DOPO

Ora che è successo il peggiore eccidio, ciò che deve interessare alla politica è il dopo. Invece mi pare che da tutte le analisi offerte dai politologi e dalla stampa del pensiero unico in Italia ci si preoccupi di mettere all’indice quanti esprimono una voce dissonante come Travaglio, Moni Ovadia, Basile, Orsini, Gad Lerner, Mini, Fini, e tanti altri pensatori. 

Quanto ai luoghi dove si decidono le sorti del mondo (Washington) e dell’Europa (Bruxelles) si continua a ignorare perché si sia arrivati a questo punto e si sposino acriticamente le più oscene minacce di bombardamenti a tappeto, di distruzioni di massa, di carneficina assurda, di genocidio, pur sapendo che significano perdite di vite umane innocenti a decine di migliaia, compresi i bambini palestinesi che meritano la stessa misericordia e la stessa compassione di quelli israeliani.

Con una certa dose di ipocrisia le varie Cancellerie (anche la nostra in modo goffo) auspicano la de-escalation, ma non fanno nulla per attuarla, per fermare i presidenti di guerra. 

Al di là dell’operazione di tremenda vendetta, che non ha posto nel diritto internazionale se esercitata contro i civili, non viene pensata una soluzione per il popolo palestinese che impedisca ad Israele di procedere alla sua completa eliminazione.

In fondo questa assoluta incapacità di pensare alle conseguenze delle guerre l'abbiamo già vista nell'invasione americana dell'Iraq, nell'occupazione per 20 anni dell'Afghanistan, nel bombardamento e disarticolazione della Libia. Di questi disastri chi ha profittato e chi ha sofferto le conseguenze senza avere un piano per il dopo?

Domani, dopo che Israele avrà raso al suolo Gaza, uccidendo 100 mila o più civili e condannandone oltre un milione ad una sopravvivenza di stenti fino alla morte, quale sarà il futuro? Sicuramente la pace non sarà più vicina.

Anziché porre un freno alla crescita dell’odio, che genera odio, ci si mobilita per negare agli altri i diritti che si vogliono custodire per sé.

I politici occidentali, troppo dipendenti dal verbo unico, non capiscono che è necessario un salto nel futuro, che per spezzare la catena delle continue esplosioni di furore occorre garantire ai palestinesi benessere, giustizia, una vita decente.

L'unico modo per fermare il massacro permanente nei prossimi venti anni e la proliferazione di atti estremi nei paesi occidentali, sarebbe quello di creare una buona volta, in adempimento delle prescrizioni dell’ONU, uno stato arabo di Palestina, internazionalmente riconosciuto, smilitarizzato e protetto da cuscinetti militari di contingenti internazionali (soprattutto europei) di robusta consistenza, lungo tutti i suoi confini di modo che la Palestina neutrale e disarmata, pur avendo tutte le libertà e i diritti degli altri stati, rinunci per sempre ad ogni forma di revanscismo. 

Similmente Israele dovrà restituire la Cisgiordania, smantellare le costruzioni offensive ed impegnarsi a rispettare la neutralità e l'integrità palestinese.

Temo tuttavia di peccare di utopia: si tratta di una soluzione troppo semplice per essere accettata dal mondo che corre a precipizio verso l'incubo più terrificante. 

Torquato Cardilli 
21 ottobre 2023

Laureato in Lingue e civiltà orientali e in Scienze politiche per l’Oriente. È stato Ambasciatore d’Italia in Albania, Tanzania, Arabia Saudita ed Angola. Ha redatto oltre 300 articoli di carattere politico ed economico pubblicati in Italia e all’estero da varie testate ed agenzie di stampa.

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