venerdì 2 agosto 2019

GIUSTIZIA: È VERA RIFORMA O ACQUA FRESCA?

di Maurizio Alesi - Una riforma che pone il limite della durata del processo senza intervenire sulle cause che la determinano, è pia illusione. I tempi di un processo dipendono da vari fattori che nessuna riforma ha mai previsto (figuriamoci quella che ha in mente la Lega).

I dati forniti dal Consiglio europeo offrono una fotografia di cui bisognerebbe tenere conto. Il primo dato è che l’Italia, per ogni 100 mila abitanti, ha lo stesso numero di magistrati della Francia e la metà di quanti ne ha la Germania. Con riferimento alle cause civili, in Italia per ogni giudice ci sono 438,06 processi l’anno mentre in Francia sono la metà (con gli stessi giudici); In Germania 54,86. In Italia ogni anno le cause civili iniziate sono pari a quelle di Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna messi insieme.

La massa di arretrato nel nostro Paese era fino a qualche anno fa di 9 milioni di processi tra civile e penale. A questi vanno aggiunti i fascicoli nuovi. Se il numero dei magistrati è uguale a quello della Francia, pur lavorando il doppio, con un numero così esorbitante di processi è impossibile gestire la giustizia. I processi sono tanti perché in Italia le maglie sono troppo larghe e a tutti viene consentito di ricorrere al giudice di secondo grado e Cassazione senza rischiare nulla. Gli uffici giudiziari sono intasati di migliaia di fascicoli di cause temerarie, cioè pretestuose.

Bisogna quindi in primo luogo intervenire sulla riduzione delle cause civili. Se io ho contratto un debito e so benissimo che mi tocca pagarlo, mi conviene costringere la controparte a farmi causa, resistere in giudizio e, nella peggiore delle ipotesi, se dovessi perdere, pagherò tra 10 anni ciò che avrei dovuto pagare subito e senza oneri superiori rispetto ai normali tassi d’interesse di qualunque banca. Ma allora perché mai dovrei cacciare i soldi immediatamente avendo anche la possibilità di farla franca. Dunque conviene sempre affrontare un processo anziché fare il proprio dovere. Ma questo avviene solo in Italia.

All'estero chi fa il furbo paga conseguenze gravi e le cause temerarie vengono punite con l’esborso di 10 volte la parte dovuta, in modo da scoraggiare le cause dilatorie. Le cose non vanno meglio per quanto riguarda il processo penale. Ecco altri dati del Consiglio d’Europa. In Italia ogni giudice deve istruire 190,71 processi l’anno solo per i reati gravi; in Francia 80,92; Germania 42,11; Regno Unito 103,94. L’Italia è sempre in testa, ma per quali motivi? Innanzitutto per l’enorme numero di reati previsti. Sembra che neppure il ministero sappia il numero esatto. Occorre procedere ad una robusta depenalizzazione.

Per fare un esempio l’emissione di assegni a vuoto prima era un reato che produceva 150 mila processi nella sola città di Milano. Oggi è diventato finalmente un illecito amministrativo. Ma la depenalizzazione è servita a poco perché l’emissione di assegni a vuoto adesso viene denunciata come truffa aumentando quella fattispecie penale e lasciando inalterato il carico di lavoro dei giudici. Fino al 2001 esisteva addirittura l’arcaico reato di sfida a duello. Ma vi sono altri reati assurdi tutt'ora previsti dal C.P. come quello di alterazione o falsificazione del biglietto dell’autobus. Per un biglietto di 1,50 € con la data abrasa, si fanno tre gradi di giudizio e se chi altera il biglietto è un poveraccio, lo Stato dovrà pagare per lui anche l’avvocato per il gratuito patrocinio fino a sentenza definitiva. Una follia totale.

Una riforma seria deve inoltre ripensare le modalità di accesso al ricorso facile che, attualmente, non prevede nessun filtro come avviene negli altri Paesi. Tutti i processi in Italia arrivano in Cassazione anche quando l’imputato sa di essere colpevole non rischiando nulla e non avendo niente da perdere. Infatti, se ricorre in appello solo l’imputato, la pena non gli può essere peggiorata ma al massimo può restare uguale a quella di primo grado o, addirittura, essere ridotta. Dunque perché mai non si dovrebbero impugnare tutte le sentenze. Ecco perché i processi si concludono in tempi biblici, nella speranza che prima della sentenza definitiva, arrivi la prescrizione.

Ma la lungaggine dei processi è dovuta anche alla farraginosità dei meccanismi previsti dal codice di procedura penale troppo burocratizzato, pieno di cavilli che si prestano a mille contestazioni in grado di bloccare un processo per mesi, mentre il processo informatico di cui si parla da anni è ancora un’utopia. Bisogna certamente mantenere la possibilità di ricorrere ai gradi successivi, ma a condizione che si istituisca un criterio per decidere l’ammissibilità del ricorso prevedendo anche l’aumento della pena per chi impugna la sentenza in modo sconsiderato, anche nei casi di condanna per flagranza di reato. In questo modo si riducono i tempi del processo, non basta fissare un termine astratto.

La prescrizione bloccata alla sentenza di primo grado, come prevede la riforma Bonafede, è un altro deterrente volto a contenere i tempi processuali. Se un imputato colpevole sa di non poter contare sulla prescrizione che lo salverà dal processo, non ha più interesse a trovare cavilli trascinando il processo per anni. Al contrario, avrà l’interesse ad arrivare prima possibile alla sentenza, anche per non farsi dissanguare dal suo avvocato che dalla lungaggine del processo ha tutto da guadagnare.

Se si vuole davvero intervenire sui tempi del processo bisogna mettere mano al funzionamento della macchina giudiziaria oltre che aumentare il numero di magistrati, cancellieri e assistenti. Fissare per legge i tempi del processo è solo vana gloria.

Maurizio Alesi
02 Agosto 2019

2 commenti:

  1. Prima di esprimere giudizi sulla riforma proposta dal M5s mi piacerebbe leggerne i contenuti e non accontentarmi di quanto lascia trapelare l'informazione che nella sua stragrande maggioranza è di parte

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    1. Certo. Io mi sono limitato ad esprimere la mia opinione. Non posso che sperare che almeno una parte delle mie considerazioni venga recepita, poichè credo che una vera riforma non possa non intervenire sui punti critici che bloccano la giustizia.

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